La transizione energetica che ancora manca
L’Unione europea intende abbandonare il carbone entro il 2050. Un forte contributo dovrà però arrivare anche dalle banche europee, che nonostante l’apparente “svolta green” finanziano ancora il 26% di tutti i progetti per lo sviluppo di centrali a carbone nel mondo.
La transizione energetica che ancora manca
L’Unione europea intende abbandonare il carbone entro il 2050. Un forte contributo dovrà però arrivare anche dalle banche europee, che nonostante l’apparente “svolta green” finanziano ancora il 26% di tutti i progetti per lo sviluppo di centrali a carbone nel mondo.
La Commissione europea ha da poco presentato il cosiddetto “Green Deal ”, un pacchetto di iniziative che mirano ad azzerare l’impatto dell’UE sul clima entro il 2050. Ma la strada verso l’applicazione sarà tortuosa, poiché alcuni stati membri orientali avevano già posto il loro veto sul raggiungimento dello stesso obiettivo durante il Consiglio europeo sul clima dello scorso giugno.
I paesi dell’Europa centro-orientale infatti dipendono fortemente dal carbone per la produzione di energia elettrica, e temono che una transizione poco strutturata verso altre forme di produzione energetica possa influire negativamente sulla loro crescita economica. Proprio il ricorso al carbone, però, rappresenta uno dei maggiori ostacoli alla riduzione delle emissioni dato che, oltre a essere per sua stessa natura una delle risorse più inquinanti, produce circa il 15% del totale di emissioni di gas serra nell’Unione Europea e il 38% delle emissioni di CO2 .
Molti paesi dell’Europa occidentale (tra cui Italia e Spagna) hanno già programmato l’abbandono totale del carbone entro il 2030, mentre la Germania (dove il carbone soddisfa ancora il 40% del fabbisogno energetico) intende farlo entro il 2038. Secondo i dati di Europe Beyond Coal , però, la transizione completa è ancora lontana: solo 38 delle 287 centrali elettriche a carbone attive sul continente europeo (comprendente quindi i 27 paesi dell’Unione Europea più i paesi dell’area balcanica e la Turchia) prevedono di chiudere ufficialmente i battenti nel prossimo futuro, per una riduzione di capacità produttiva di soli 18.162 Megawatt sui 179.157 complessivi.
La Polonia progetta addirittura di costruire tre nuove centrali a carbone, per un aumento di capacità di circa 5000 Megawatt, di gran lunga l’ampliamento più consistente tra i paesi dell’Unione Europea. Ungheria, Romania e Bulgaria non osano altrettanto, ma rimangono interessate a incrementare l’utilizzo del carbone piuttosto che a diminuirlo.
Tra i paesi candidati e del vicinato, la Turchia registra le intenzioni più negative, con la pianificazione di 48 nuove centrali a carbone per un aumento di capacità produttiva di quasi 35.000 Megawatt. Ma anche Serbia e Bosnia Erzegovina appaiono intenzionate a costruire nuove centrali – una scelta che non sarebbe sostenibile quando dovesse finalmente avvenire l’ingresso nell’UE. Infatti, l’applicazione dello European Union Emission Trading System provocherebbe verosimilmente la bancarotta di tutte le centrali a carbone . Questo sistema limita l’emissione di gas serra attraverso l’assegnazione di apposite quote ai vari impianti energetici e industriali, rendendo spesso più redditizio diminuire il volume di emissioni piuttosto che acquistare ulteriori quote.
Una transizione non proprio green
In realtà, nella prima metà del 2019 l’Unione Europea aveva già visto diminuire la generazione di energia elettrica da carbone del 19% rispetto al 2018 , con picchi del -79% in Irlanda e del -22% in Germania. Un risultato agevolato anche dall’aumento dei prezzi dovuto proprio all’Emission Trading Scheme, che ha portato il costo dell’emissione di ogni tonnellata di CO2 dai 5€ del 2017 ai 25€ del 2019 , causando enormi perdite alle centrali europee .
Tuttavia, solo metà della produzione energetica un tempo affidata al carbone è stata prodotta attraverso lo sfruttamento di fonti rinnovabili – anche se questo è avvenuto quasi ovunque nei paesi dell’Europa occidentale. Per provvedere all’altra metà è stato fatto ricorso al gas , risorsa altrettanto – se non maggiormente – inquinante , ma divenuta più accessibile dopo l’aumento del costo del carbone. Una soluzione poco sostenibile sul lungo termine non solo dal punto di vista ambientale, ma anche pratico, poiché le centrali a gas raggiungeranno presto la loro capacità massima.
La risposta dovrà dunque arrivare dalle rinnovabili, settore in crescita poiché sempre più conveniente ed efficiente : il costo della produzione di energia rinnovabile è ormai pari a quello dell’energia derivante da combustibili fossili. Ma per fare in modo che una transizione totalmente green sia possibile saranno necessari tra gli altri maggiori investimenti nella rete energetica e nelle strutture di stoccaggio – finora insufficientemente finanziate, soprattutto nei paesi dell’Europa centro-orientale.
Il ruolo delle banche private
Inizialmente, l’uscita di scena del carbone peserà dunque in modo non indifferente sui bilanci dei paesi europei, che dovranno riadattare le proprie strategie energetiche e riallocare la forza lavoro impiegata nel settore. Allo stesso tempo, la transizione verso fonti di energia rinnovabili promette di creare nuovi posti di lavoro e diventare sempre più accessibile. L’Unione Europea intende addirittura convincere gli stati più dipendenti dal carbone ad abbandonarlo attraverso un piano di pagamenti diretti che ammonta a quasi dieci miliardi di euro.
Gli investimenti e le pressioni del settore pubblico, tuttavia, non saranno sufficienti a risolvere un problema di portata globale come quello del surriscaldamento. Segnali forti dovranno arrivare anche dal settore privato, con le banche in particolare chiamate a giocare un ruolo fondamentale.
Le stesse banche multilaterali di sviluppo regionale controllate dall’UE – la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (EBRD) e la Banca europea per gli investimenti (EIB) – investono attualmente importanti capitali nelle centrali alimentate a combustibili fossili. Circa la metà del bilancio annuale di 6,7 miliardi dell’EBRD finisce in progetti di questo tipo, mentre l’EIB ha prestato 11,8 miliardi tra il 2013 e il 2017 . Quest’ultima, tuttavia, ha recentemente annunciato di voler sospendere tutti i finanziamenti all’industria fossile entro il 2021 – una mossa che dovrebbe portare a mobilitare circa un triliardo di euro di investimenti per le rinnovabili nell’arco del prossimo decennio, e che potrebbe indurre altri istituti sostenuti dal settore pubblico a fare lo stesso.
La speranza dell’EIB è però quella di dare un forte segnale anche alle banche private europee, che rimangono invece molto attive sul mercato del fossile – fornendo finanziamenti diretti o indiretti al 26% di tutti i progetti per lo sviluppo di centrali a carbone del mondo tra il 2017 e il 2019. Secondo il rapporto “Banking on Climate Change ”, recentemente pubblicato da una rete di sei Ong che si occupa di temi legati al finanziamento dell’industria fossile, sono europei la metà dei 30 maggiori finanziatori mondiali di aziende che si occupano dell’estrazione di carbone e della produzione di energia elettrica da carbone, per un totale di quasi 21,5 miliardi di dollari di investimenti nel triennio 2016-2018. Guidano le due classifiche la svizzera Credit Suisse, che ha finanziato l’industria mineraria con poco più di 2 miliardi di dollari di investimenti in tre anni, e la britannica Barclays, che ne ha garantiti oltre 3 all’industria energetica.
Un piede in due scarpe
Al settembre 2019, 13 dei 15 istituti bancari presi in considerazione hanno inserito nei propri codici di condotta impegni che limitano o vietano i finanziamenti a progetti di estrazione e/o di produzione di energia elettrica da carbone. Alcuni però hanno previsto il blocco dei finanziamenti solo per i nuovi progetti, mentre altri, come Credit Suisse, hanno dichiarato ripetutamente l’intenzione di voler abbandonare gli investimenti nell’industria del carbone, ma non lo hanno poi realmente fatto.
D’altro canto le stesse banche, attratte dalla crescente redditività delle fonti rinnovabili, hanno iniziato a finanziare il settore in modo sempre più consistente: tra il 2013 e il 2019, gli investimenti complessivi nel mercato europeo dell’energia rinnovabile (compresi quelli provenienti da banche non europee) sono ammontati a più di 100 miliardi di euro . Sei dei quindici prestatori più attivi nel campo solare ed eolico (Santander, ING, Natixis, Credit Agricole, PNB Paribas, Unicredit) sono però presenti allo stesso modo anche nella lista dei maggiori finanziatori mondiali dell’industria del carbone.
Questi dati dimostrano come gli istituti di credito siano attivi ormai da anni nel settore delle rinnovabili; un esercizio ormai redditizio non solo dal punto di vista etico e reputazionale, ma anche economico. Certo è che non basta puntare sulle rinnovabili se le banche europee, nonostante gli impegni dichiarati, continuano a investire nel carbone. I grandi istituti di credito hanno davvero il potere di arrivare là dove la legislazione europea non può (sia dal punto di vista economico che geografico) semplicemente interrompendo ogni tipo di investimento, ma finché terranno un piede in due scarpe, la strada sarà ancora lunga.