L’Europa riuscirà a evitare la crisi in arrivo?
Questo autunno non ispira certo un grande ottimismo. L'Europa sarà capace di reagire ai segnali di tempesta che si moltiplicano? Dipenderà in gran parte dalla volontà del governo tedesco di rinunciare (finalmente) ai dogmi imposti alla zona euro negli ultimi dieci anni.
L’Europa riuscirà a evitare la crisi in arrivo?
Questo autunno non ispira certo un grande ottimismo. L’Europa sarà capace di reagire ai segnali di tempesta che si moltiplicano? Dipenderà in gran parte dalla volontà del governo tedesco di rinunciare (finalmente) ai dogmi imposti alla zona euro negli ultimi dieci anni.
La Germania entra in recessione e gli Stati Uniti potrebbero seguire la stessa strada; la crisi politica italiana si aggrava; le incertezze legate alla Brexit sono più forti che mai; la guerra commerciale fra la Cina e gli Stati Uniti non accenna a finire; Iran, Siria, Venezuela, Hong Kong, Corea del nord: le tensioni geopolitiche continuano ad accumularsi. Inoltre, nel secondo trimestre 2019 la crescita della zona euro si è ridotta a un esiguo 0,2 per cento rispetto al trimestre precedente.
L’economia tedesca, la prima della zona euro, è entrata in una fase difficile mentre l’economia italiana, la terza della zona, ristagna. Anche il Regno Unito, seconda economia dell’Unione europea, ha visto il suo prodotto interno lordo (Pil) scendere dello 0,2 per cento. E per ora nulla sembra indicare che la situazione migliorerà nel terzo trimestre, anzi la Germania dovrebbe ufficialmente entrare in recessione. Nel paese, che da solo rappresenta il 29 per cento del Pil della zona euro, è soprattutto l’industria a soffrire: in questo settore l’attività si è già contratta del 7,5 per cento dalla fine del 2017. La produzione automobilistica è tornata al livello del 2009, nel momento più grave della crisi. Ma anche il settore bancario è in grande difficoltà e le due principali banche private del paese – la Deutsche Bank e la Commerzbank – stanno mettendo in difficoltà tutto il settore in Europa.
In questo contesto difficile la Francia si comporta un po’ meglio dei suoi vicini, con una crescita del Pil dello 0,2 per cento nel secondo trimestre. Ma in un anno il Pil è aumentato solo dell’1,3 per cento, rispetto al 2,5 per cento del secondo trimestre 2018, la metà rispetto a 12 mesi fa.
E questo in un contesto in cui il deficit pubblico supererà di nuovo quest’anno il 3 per cento del Pil a causa del cumulo del Credito di imposta di competitività per l’occupazione (Cice) per il 2018 e della continua riduzione degli oneri sociali pagati dalle imprese che lo sostituiscono, un regalo fatto alle imprese e stimato in una quindicina di miliardi di euro, ai quali si aggiungono le misure decise in seguito alla crisi dei gilet gialli, che rappresentano da sole una spesa di 17 miliardi di euro (in parte da pagare nel 2020). Grazie a questi impulsi l’economia francese, meno industriale e dipendente dalle esportazioni rispetto a quella dell’Italia e della Germania, dovrebbe essere più dinamica. Ma in un quadro internazionale complicato, il governo del Paese ha probabilmente messo a rischio i francesi con le misure prese o annunciate per rendere più flessibile il mercato del lavoro, per ridurre la spesa pubblica, per limitare l’indennità di disoccupazione e per rimettere in discussione il sistema pensionistico, annullando così, di fatto, una parte significativa dell’effetto di rilancio delle misure di bilancio a favore di un risparmio cautelativo.
Il ruolo della Banca Centrale Europea
Al di là del caso francese, che cosa può fare l’Europa per evitare che si inneschi una nuova spirale recessiva come quella che abbiamo conosciuto dieci anni fa? Secondo la Commissione europea ancora quest’anno la zona euro dovrebbe produrre un surplus commerciale di 380 miliardi di euro, cioè il 3,2 per cento del suo Pil. In altre parole viviamo molto al di sotto dei nostri mezzi e di conseguenza i nostri margini di manovra rimangono importanti. Ma a causa dei dogmi che dominano la politica europea da diec’anni a questa parte, non è sicuro che riusciremo a sfruttarli.
Contro il rallentamento dell’economia, la Banca Centrale Europea (Bce) può prima di tutto ridurre i tassi di interesse a breve termine ai quali presta alle banche e iniettare direttamente del denaro nel circuito economico (il famoso quantitative easing adottato su vasta scala dal 2012). Ma i tassi di riferimento della Bce sono già nulli, poiché applica dei tassi di interesse negativi sul denaro che le banche lasciano presso di lei invece di prestarlo. E a forza di creare della moneta supplementare comprando dal 2012 grandi quantità di titoli sui mercati finanziari, la Bce ne detiene per 4.678 miliardi di euro, cioè il 39 per cento del Pil della zona euro, il doppio della riserva federale americana.
Inoltre questa politica sembra avere solo un effetto limitato sull’economia reale, come illustra la debolezza persistente della crescita e dell’inflazione: nell’agosto scorso l’aumento dei prezzi è stato solo dell’1 per cento annuo nella zona euro, meno della metà dell’obiettivo del 2 per cento auspicato dalla Bce. Ma la riduzione dei tassi di interesse che provoca la politica monetaria della Bce ha anche come risultato quello di annullare i redditi da risparmio delle classi medie, collocati spesso in prodotti finanziari a basso rischio. Da ciò deriva il malcontento di molti tedeschi, che risparmiano molto, nei confronti della Bce.
In compenso questa politica ha l’effetto di drogare i prezzi degli investimenti, sia in azioni sia nel settore immobiliare, garantendo lauti guadagni ai più ricchi e permettendo agli intermediatori finanziari, che gestiscono i loro investimenti, di ottenere importanti commissioni. È così che questi attori rimangono favorevoli a politiche monetarie accomodanti. Di fatto i margini di manovra della Bce sono ormai limitati, anche se questa istituzione dovrebbe adottare ancora qualche misura supplementare in settembre, e in ogni modo non è auspicabile continuare a fare affidamento su di essi per sostenere le attività economiche.
Occorre un maggiore intervento pubblico
Nell’attuale contesto con tassi di interesse sui titoli di stato molti bassi si dovrebbe ricorrere di più a politiche di disavanzo di bilancio. Quest’anno nell’insieme della zona euro il deficit dovrebbe essere solo dello 0,9 del Pil. Si tratta indubbiamente di 0,4 punti del Pil in più rispetto al 2018, poiché la Francia e l’Italia hanno un po’ allentato la loro disciplina di bilancio. Ma rimangono ancora margini importanti, anche rispettando il famoso limite del 3 per cento del Pil.
Tuttavia sarà complicato utilizzare questi margini a causa del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance (Tscg) adottato nel 2012. Questo trattato infatti vieta agli stati il cui debito pubblico supera il 60 per cento del Pil di aumentare il proprio indebitamento. Il problema è che la politica economica seguita dal 2010 a questa parte ha mantenuto l’economia europea sull’orlo della recessione, e di conseguenza non ha permesso di ridurre il debito pubblico: al di fuori della Germania questo debito nella zona euro rimane al 97 per cento del Pil, di fatto si è ridotto solo di 5 punti rispetto al livello raggiunto nel 2014. Per poter reagire in modo adeguato al rallentamento attuale si dovrebbe quindi seppellire il Tscg: sarà molto difficile da ottenere.
La Germania ha un avanzo di bilancio di 1 punto del Pil e ha approfittato della sua posizione privilegiata dopo la crisi per riportare il suo indebitamento al 58 per cento del Pil.
Oggi quindi la Germania è il paese che ha al tempo stesso più bisogno di sostenere la propria attività e quello che dispone dei maggiori margini di manovra per farlo. Ma sarà in grado di utilizzarli? Non è così evidente.
A Berlino la gravità della situazione non è ancora pienamente percepita. Nel 2009 la Germania aveva conosciuto una profonda recessione – una riduzione del Pil del 5,6 per cento nel quarto trimestre 2009, il doppio rispetto alla Francia – ma il paese si era poi ripreso rapidamente senza un massiccio intervento pubblico, grazie alla domanda per le sue macchine e le sue automobili stimolata dai giganteschi piani di rilancio della Cina e degli Stati Uniti. Tuttavia sembra poco probabile che oggi si riproduca uno scenario analogo, e dopo lo scandalo dei motori diesel la crisi dell’automobile rischia di prolungarsi, anche a seguito dei grandi cambiamenti che stanno interessando il settore. Se la Germania non capirà abbastanza in fretta la necessità di fare ricorso a un’azione pubblica forte e prolungata per uscire dalla crisi, il suo futuro rischia di complicarsi. Non solo per lei, ma anche per i suoi partner industriali.
Le necessità della Germania sono considerevoli: negli ultimi vent’anni il paese ha investito troppo poco nelle sue infrastrutture pubbliche, anche se un piccolo sforzo ha cominciato a essere fatto negli ultimi tre anni; la povertà è più alta che in Francia, in particolare fra le persone anziane; per quanto riguarda la transizione energetica, anche se molto è stato fatto, l’uscita congiunta dal carbone e dal nucleare rimane una sfida colossale; inoltre il paese deve ormai affrontare una crisi degli alloggi nelle sue città che potrà essere risolta solo con un forte intervento pubblico.
Anche se esistono dei margini di manovra, è però difficile attivarli a causa di un blocco ideologico nei confronti dell’azione pubblica in un paese imbevuto di ordoliberalismo e costretto da forti vincoli costituzionali. Nel 2009 la Germania ha inserito nella sua costituzione un “freno al debito” (Schuldenbremse). Questa disposizione vieta ai Länder qualunque ricorso al deficit e limita quello dello stato centrale allo 0,35 per cento del Pil. Si tratta della cosiddetta politica dello schwarze Null, lo zero nero (rispetto al colore rosso che indica i deficit). In realtà si tratta di un deficit detto “strutturale” – in caso di rallentamento dell’economia si può contare su margini di manovra più ampi e in caso di grave crisi sono previste delle clausole di salvaguardia – tuttavia l’esistenza di questa clausola complica l’adozione di un eventuale piano di rilancio.
Olaf Scholz, il ministro delle Finanze socialdemocratico, ha evocato a fine agosto la possibilità di un piano di rilancio di 50 miliardi di euro, cioè dell’1,4 per cento del Pil tedesco. Ma per ora si tratta solo di una semplice ipotesi. La Frankfurter Allgemeine Zeitung, il grande quotidiano conservatore tedesco, ha subito pubblicato un editoriale in prima pagina per affermare che “un pacchetto congiunturale non è necessario”. Il governo tedesco ha comunque deciso il mese scorso una riduzione delle imposte di 10 miliardi di euro, lo 0,3 per cento del Pil, ma questa misura sarà operativa solo nel 2021.
Il mercato del lavoro e la deflazione
L’ultimo strumento a cui si può ancora ricorrere è rappresentato dalle politiche del mercato del lavoro. In effetti le politiche per rendere più flessibile il mercato e per la riduzione del costo del lavoro condotte attualmente in tutti i paesi europei contribuiscono ad alimentare la deflazione nella zona euro. Queste politiche si riflettono in particolare in quelli che sono definiti i “costi unitari di manodopera”: il costo del lavoro necessario per produrre un euro di ricchezza. Negli ultimi anni nella zona euro questo costo ha continuato a ridursi, contraendosi di 3 punti dal 2009.
In effetti, dopo aver fatto ricorso al dumping sociale agli inizi degli anni 2000, il costo del lavoro tedesco ha ripreso ad aumentare dal 2016, in particolare grazie all’introduzione di un salario minimo, che ha permesso di rilanciare la domanda interna tedesca.
Ma gli effetti negativi del periodo Schröder non sono ancora del tutto scomparsi. Negli ultimi anni l’Italia e la Spagna hanno preso il posto della Germania in questa corsa contro lo stato sociale. L’aumento dei salari, in particolare attraverso i salari minimi (e la loro prossima possibile introduzione in Italia, uno dei pochi paesi europei a non averli), sarebbe oggi una necessità.
Ma attualmente non esiste alcuna leva istituzionale per coordinare una politica del genere in Europa. Come nel caso del deficit pubblico, questo rilancio attraverso i salari non riguarda direttamente la Francia dove i costi salariali unitari non sono quasi scesi negli ultimi anni. Di fronte alla crisi che incombe gli europei e soprattutto i nostri vicini tedeschi saranno capaci di disfarsi in tempo dei loro paraocchi? Una situazione che dovremo seguire con attenzione (e da vicino).
https://www.alternatives-economiques.fr/leurope-eviter-crise-vient/00090108