Il nucleare francese è un problema europeo
Chiudere o non chiudere? Il governo francese annuncerà se chiuderà definitivamente o meno alcuni reattori nucleari nell'ambito del suo piano di "programmazione pluriannuale di energia" (Ppe) per gli anni 2019-2028, questo oltre alla chiusura già prevista dei due reattori della centrale di Fessenheim, che compenseranno l'avvio del futuro reattore Epr in costruzione a Flamanville, in Normandia.
Il nucleare francese è un problema europeo
Chiudere o non chiudere? Il governo francese annuncerà se chiuderà definitivamente o meno alcuni reattori nucleari nell’ambito del suo piano di “programmazione pluriannuale di energia” (Ppe) per gli anni 2019-2028, questo oltre alla chiusura già prevista dei due reattori della centrale di Fessenheim, che compenseranno l’avvio del futuro reattore Epr in costruzione a Flamanville, in Normandia.
Si tratta di un documento di orientamento fondamentale, atteso da più di quattro mesi, nel quale verrà delineata la strategia di produzione della Francia in un’ottica di riduzione dell’impatto ambientale così come previsto dagli obiettivi Ue (riduzione del 40 per cento delle emissioni di gas a effetto serra, rispetto ai livello del 1990, entro il 20130).
Ma l’esecutivo francese è in ritardo nel presentare la sua tabella di marcia energetica a causa delle esitazioni sull’applicazione della legge del 2015 con la quale la Francia si è impegnata a portare al 50 per cento la parte del nucleare nella sua produzione elettrica. Oggi, infatti, circa il 71 per cento (dati del 2017) dell’energia elettrica francese arriva dal nucleare: un livello molto alto, unico in Europa e altrove.
Nel 2016 il rapporto annuale della Corte dei conti francese ha ricordato che, per tornare al livello del 50 per cento di nucleare continuando a rispettare gli altri obiettivi della legge di transizione energetica del 2015 (sull’evoluzione del consumo energetico e su quello della produzione di energia rinnovabile) la Francia dovrebbe chiudere progressivamente da 17 a 20 reattori su 58, in particolare quelli che progressivamente arriveranno a 40 anni di attività, il limite di età per i quali sono stati progettati.
In questo caso, però, il governo francese ascolta soprattutto la lobby nucleare, che lo incita a limitare il più possibile le chiusure di questi impianti, prolungando la durata di vita dei suoi reattori nucleari.
Secondo un recente documento governativo si ipotizzano tre scenari.
Il primo, che proviene dal Ministero dell’Ecologia, prende in considerazione la chiusura di 6 reattori tra il 2023 e il 2028 e di altri 6 fra il 2029 e il 2035, cioè 12 oltre a quello di Fessenheim. Inoltre non verrà aperto nessun nuovo cantiere durante il quinquennio della presidenza attualmente in carica.
Il secondo scenario riprende le rivendicazioni di Edf (Électricité de France, la più grande azienda francese di fornitura di elettricità, oggi al 70 per cento di proprietà pubblica, ndr): nessuna ulteriore chiusura di reattori prima del 2029 e prolungamento della durata di vita delle centrali a 50 anni di attività.
Come il primo, anche questo secondo scenario prende in considerazione la chiusura definitiva di una dozzina di reattori, ma concentrata nel periodo 2029-2035. Sull’esempio dello scenario 1, non dovrebbe essere presa alcuna decisione sull’Epr (European Pressurized Reactor, Reattore nucleare europeo ad acqua pressurizzata, ndr) durante questo quinquennio, a differenza dello scenario 3 sostenuto dal ministero dell’Economia, che vuole lanciare quattro nuovi Epr, di cui due nel 2034, cosa che presupporrebbe una decisione rapida. Inoltre solo 9 reattori dovrebbero essere chiusi entro il periodo 2028-2035.
Rispetto alle stime del rapporto della Corte dei conti, questi tre scenari hanno in comune la volontà di ridurre al minimo il numero di chiusure di reattori entro il 2035, e al tempo stesso l’intenzione di accelerare il ritmo di nuove installazione di energia rinnovabile (che nel 2017 hanno raggiunto una produzione totale di 2,8GW) in un contesto in cui il consumo di elettricità in Francia dovrebbe stagnare o ridursi almeno fino al 2035, secondo l’ultimo bilancio di previsione della Rete di trasporto dell’elettricità (Rte) . Il risultato sarà quindi un importante eccedenza nella produzione di elettricità, che la Francia dovrà poter esportare sui mercati europei.
Così, quello che può sembrare un dibattito solo interno alla Francia, rischia di avere un carattere molto europeo. Se infatti la Francia, come si appresta a fare, sceglierà uno scenario molto orientato all’esportazione di elettricità (allo scopo di preservare il più possibile il suo parco di reattori) in un contesto europeo di stagnazione della domanda elettrica – lo sviluppo del veicolo elettrico traina la domanda di elettricità, ma questa tendenza è neutralizzata dalla riduzione dei consumi dovuta al continuo miglioramento dell’efficienza degli apparecchi elettrici – e di rapido sviluppo della produzione di rinnovabile, il risultato potrà essere solo un aumento degli eccedenti delle capacità produttive di cui soffre da diversi anni il settore elettrico dell’Europa occidentale.
Una situazione di sovraccapacità avrà fatalmente l’effetto di spingere stabilmente verso il basso i prezzi all’ingrosso dell’elettricità sui mercati europei e quindi di penalizzare i produttori di elettricità. Produttori che, con margini bassi, faranno fatica a investire, cosa che in ultima analisi finirà per rallentare l’uscita dal carbone e dal gas e frenerà lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Oltre al rischio economico di uno scenario del genere, si aggiunge ovviamente quello dell’incidente. Il prolungamento della durata di vita dei reattori rende più complicato lo sfruttamento delle infrastrutture in condizioni di sicurezza ottimali, soprattutto se la diminuzione dei margini di profitto dei produttori di elettricità riduce la loro capacità di investimento nella sicurezza delle centrali. Inoltre, le conseguenze di un incidente grave in Francia non si limiterebbero ovviamente alle sue frontiere, ma si estenderebbero a gran parte dell’Europa. Si tende a dimenticarlo, ma a causa delle scelte particolari della Francia, l’Ue è la regione più nuclearizzata del mondo.
L’attuale problema delle sovraccapacità elettriche europee, che potrebbe aggravarsi domani a causa delle scelte di Parigi, potrebbe risolversi rafforzando la cooperazione fra Stati membri. In particolare la Francia e la Germania potrebbero mettersi d’accordo per un’uscita congiunta e coordinata dall’elettricità “sporca”, del tipo: “Per dare spazio alle energie rinnovabili tu chiudi le tue vecchie centrali a carbone e io chiudo i miei vecchi reattori”.
Il problema è che la Francia non è affatto intenzionata ad abbandonare il nucleare, a differenza dei suoi vicini europei che lo hanno lasciato già da tempo (Italia, Irlanda, Grecia, paesi baltici ecc…) o che ne stanno uscendo adesso (Germania, Belgio, Spagna, ecc.). Al contrario, Parigi non esclude di costruire una serie di Epr per rinnovare, almeno in parte, la produzione elettrica fornita attualmente dal suo parco di reattori, di cui 48 unità su 58 nel 2028 avranno superato i 40 anni di attività.
Una scelta del genere rappresenta un grosso problema di sicurezza, non solo per la Francia ma per l’intera Europa. E anche se questi Epr sono concepiti per essere più sicuri delle generazioni precedenti, il prototipo costruito a Flamanville presenta dei problemi di realizzazione a livello della vasca e delle saldature del circuito primario. Per di più questi futuri reattori contribuiranno ad aumentare la massa di scorie radioattive prodotte in Europa.
La Francia, inoltre, è costretta a trovare un mercato interno per il suo Epr visto che non riesce a venderlo all’estero. Da un lato infatti si scontra con i suoi concorrenti asiatici, dall’altro il nucleare è un’industria il cui declino sembra irreversibile, a giudicare dagli ultimi dati raccolti dal World Nuclear Industry Status Report , un rapporto annuale indipendente che dal 2004 segue l’evoluzione del settore.
Dopo il picco raggiunto nel 1976, il numero di costruzioni ha continuato a ridursi nei successivi 20 anni, fino a ridursi a zero nel 1995. La ripresa osservata in seguito ha potuto far credere a una “rinascita” dell’atomo in un contesto sempre più sensibile ai problemi climatici. Ma in realtà questa tendenza, che non ha mai superato i livelli raggiunti negli anni Sessanta e che si è basata quasi esclusivamente sulla Cina, si è completamente fermata dopo il 2010.
In effetti da allora la Cina – che concentra la maggior parte dei progetti nucleari – costruisce sempre meno reattori grazie a delle energie rinnovabili sempre più competitive. Infatti questo paese, che ospita il maggior numero di reattori in costruzione (16 su 50 nel mondo, a metà del 2018), non ha avviato alcun nuovo cantiere nel primo semestre di quest’anno.
Per quanto riguarda l’Europa, a eccezione del reattore Epr di Flamanville, sono all’incirca 30 anni che non si costruiscono più reattori. Questo perché in passato le energie fossili, carbone e gas, erano più competitive, mentre oggi quelle rinnovabili sono sempre più attraenti. Il nucleare rappresenta solo una minima parte degli investimenti europei nelle nuove capacità elettriche: 10 miliardi di euro cumulati negli anni 2013-2017 rispetto ai 315 miliardi di euro investiti nelle energie rinnovabili. Su scala mondiale il contrasto è ancora più evidente, perché purtroppo da qualche anno la crescita degli investimenti nell’energia verde si fa senza l’Unione europea.
Gli investimenti nel settore eolico e fotovoltaico, anche se dal 2011 si sono fortemente ridotti a livello dell’Ue, hanno di fatto sostituito gli investimenti nel nucleare. Nel frattempo i costi delle filiere rinnovabili si sono ridotti moltissimo. Il risultato è un divario sempre più forte fra il nucleare e le energie rinnovabili, sia per quanto riguarda le strutture attual, sia per quanto riguarda la produzione. Dal 2000 al 2017 la produzione nel settore eolico e fotovoltaico è aumentata rispettivamente di 154 e 106 MW, mentre la potenza del parco nucleare europeo si è ridotta di 19 MW, e le chiusure di reattori sono state superiori all’allacciamento di nuove unità alla rete.
Per quanto riguarda i volumi prodotti, anche in questo caso il divario è spettacolare. Sempre fra il 2000 e il 2017 la produzione eolica e fotovoltaica è aumentata da 120 a 340 TW, mentre il nucleare è sceso di 100 TW, in particolare a causa della chiusura per periodi sempre più lunghi dei reattori per manutenzione o per incidenti legati alla crescente vetustà del parco nucleare.
Non bisogna però dimenticare che i mezzi di produzione inquinanti (nucleare, carbone e gas) rappresentano oggi gran parte del mix elettrico europeo.
Se la riduzione della produzione elettrica fatta attraverso il carbone e il nucleare sono delle tendenze di fondo, il gas – energia che emette anidride carbonica – è in forte ripresa, mentre le energie rinnovabili con grandi potenzialità, come l’eolico e il fotovoltaico, sono ancora molto lontane dall’aver sostituito i loro concorrenti.
Di fatto i nuovi impianti nucleari sembrano condannati, questo sia in Europa che nel resto del mondo. Il prezzo del KWh così com’è stato negoziato nel contratto concluso da Edf con il Regno Unito per la costruzione dei due reattori di Hinkley Point è di circa 110 euro, e si tratta di reattori che non hanno ancora visto la luce. Per quanto riguarda invece le energie rinnovabili, nell’ultima gara d’appalto lanciata in Francia il costo medio per il fotovoltaico a terra è di 55 €/MWh.
A questo livello, anche includendo le spese legate alla gestione del carattere intermittente delle energie rinnovabili e considerando un’eventuale riduzione del costo del nucleare se dovesse estendersi (cosa però che non corrisponde ad alcuna tendenza del mercato), il nucleare perde l’unico vantaggio che finora poteva offrire, cioè il basso costo. .
Per quanto riguarda le fonti fossili, non bisogna fare troppo affidamento sulle forze del mercato per vederle scomparire e solo delle politiche pubbliche più ambiziose permetteranno di eliminarle.
In Europa il prezzo dell’anidride carbonica imposto ai produttori di elettricità è troppo basso per scoraggiare l’investimento nel carbone e nel gas. La Francia con il suo nucleare “amico del clima” vorrebbe volentieri correre in aiuto dei suoi vicini europei disposti a uscire dalle energie fossili, a cominciare dalla Germania.
Ma questo discorso non tiene conto del fatto che questo paese, come altri in Europa, non vuole solo lottare contro il cambiamento climatico e le emissioni di anidride carbonica, ma anche uscire dal nucleare, in particolare dopo Fukushima.
È difficile immaginare che i paesi più coinvolti nel carbone e nel gas siano disposti a fare uno sforzo supplementare con le loro centrali, se la Francia alle prese con il nucleare non farà altrettanto con le sue. In Europa un accordo sulle energie fossili passa attraverso un accordo su quelle fissili e viceversa.