Covid-19 e carceri: chiusure dolorose e innovazioni incoraggianti
Un’intervista con Alessio Scandurra, direttore dello European Prison Observatory, per comprendere l’impatto della pandemia sulle carceri europee, sia a livello sanitario sia in termini di minori o maggiori opportunità per le persone detenute.
Covid-19 e carceri: chiusure dolorose e innovazioni incoraggianti
Un’intervista con Alessio Scandurra, direttore dello European Prison Observatory, per comprendere l’impatto della pandemia sulle carceri europee, sia a livello sanitario sia in termini di minori o maggiori opportunità per le persone detenute.
Large investigation
Questa intervista fa parte dell’inchiesta collaborativa sull’impatto del Covid-19 sulle carceri europee condotta da EDJNet.
Alessio Scandurra dirige lo European Prison Observatory , una rete europea di organizzazioni della società civile impegnate nel monitoraggio e nella tutela dei diritti delle persone detenute. La rete è coordinata dall’associazione italiana Antigone , di cui Scandurra fa parte. Lo abbiamo intervistato nell’ambito dell’inchiesta collaborativa sull’impatto del Covid-19 sulle carceri in Europa che abbiamo svolto assieme ai partner dello European Data Journalism Network.
Cosa avete osservato su quello che è successo all’interno delle carceri in questi due anni? Cosa sono state le cose più notevoli su scala europea?
Dappertutto in Europa, il carcere ha dimostrato di avere una grande facilità a chiudersi alla prima minaccia, mentre la riapertura è molto lenta e faticosa, soprattutto in alcuni paesi.
Quello che è pesato ovunque di più è stata la sospensione delle visite e dei colloqui coi familiari. In alcuni casi le comunicazioni telefoniche sono state messe a carico di famiglie e detenuti; in altri mancavano le infrastrutture informatiche per compensare con delle videochiamate. L’Ungheria è il paese dove la sospensione dei contatti con i familiari è durata più a lungo, e tra l’altro non c’è stata nessuna misura compensativa.
In Italia sono state aumentate le telefonate e si è attivato quasi subito un sistema di videochiamate. È stato un cambiamento epocale, dato che questo servizio prima non esisteva e il livello di accesso dei detenuti a internet era praticamente nullo.
La chiusura del carcere ha comportato la sospensione di quasi tutti i rapporti con l’esterno, non solo con le famiglie. Qual è stato l’impatto sulle attività e i servizi disponibili per i detenuti, e qual è la situazione ora?
La società civile rappresenta dappertutto un pezzo importante del carcere. In Italia e altrove, poiché entravano meno le organizzazioni diminuivano anche i servizi: il volontariato si è fermato, la formazione professionale si è fermata, la scuola in presenza non c’era quasi da nessuna parte. Bisogna però tenere presente che anche in condizioni normali solo una parte della popolazione detenuta in Europa beneficia di iniziative e attività, in fondo quella del carcere chiuso è una condizione abbastanza comune per tanti.
Altri servizi sono stati ridimensionati o sospesi perché la pandemia si è mangiata molti spazi: devi creare sezioni ad hoc per l’isolamento, sezioni ad hoc per i detenuti positivi, e così via – ma in carcere è molto più difficile trovare spazi rispetto ad altrove. E devi sempre essere pronto all’eventualità che nel giro di pochi giorni cambi tutto.
Tra le organizzazioni della società civile rimaste fuori dal carcere ci sono state anche le organizzazioni che si occupano di monitorare il rispetto dei diritti dei detenuti, tra cui quelle che fanno parte dello European Prison Observatory. Siete comunque riusciti a portare avanti il vostro lavoro?
Le organizzazioni indipendenti che monitorano la situazione in carcere nei diversi paesi europei sono molto disomogenee. Alcune sono realtà grosse e autorevoli, e proprio per questo sono riuscite a rientrare in carcere prima di tanti altri. Noi di Antigone abbiamo ripreso a entrare nel settembre 2020, in quella fase gli unici esterni in pratica eravamo noi e i medici delle ASL.
È normale che in un momento di crisi come questo siano state sospese tante cose; è stata una scelta che ha contribuito a prevenire problemi e guai anche maggiori. Però in momenti come questi è particolarmente importante garantire un minimo di trasparenza e di accesso agli osservatori esterni, perché quando ci sono elementi di tensione aggiuntivi le violenze possono deflagrare nei peggiori dei modi, come abbiamo visto con le rivolte e i pestaggi che si sono verificati in Italia all’inizio della prima ondata.
È successo qualcosa di simile in altri paesi?
Io ho saputo di pochissime proteste – e di dimensioni molto contenute – in alcuni paesi europei all’inizio della pandemia: in Romania, in Grecia, in Francia. A oggi non ho avuto notizie di episodi di violenza paragonabili a quelli italiani, né nelle proteste né nella reazione.
Devo ancora sentire una spiegazione convincente dell’eccezione italiana, rimane tanto da capire. È invece più semplice capire perché le violenze non siano avvenute in alcune carceri italiane. Là dove c’è stato uno sforzo di preparazione e di spiegazione, quando sono stati sospesi i colloqui la situazione è rimasta gestibile.
Lavorando sui dati sui casi di Covid-19 nelle carceri europee, ci siamo scontrati con una grande disomogeneità della quantità e qualità di informazioni condivise da ciascuno stato. Anche da questo punto di vista una maggiore trasparenza sarebbe importante, no?
È vero, ci sono alcuni paesi europei bravissimi a produrre e aggiornare numeri, come il Regno Unito, e paesi dove questo è molto più difficile, come il Portogallo o la Grecia. Con la pandemia questa disparità si è riproposta, anche perché in parte si utilizzano le stesse infrastrutture, metodologie e operatori per raccogliere i dati.
In alcuni posti è stato fatto uno sforzo particolare, riconoscendo la straordinarietà del momento, mentre in altri paesi forse si è partiti dal presupposto contrario: e cioè che fosse opportuno che non tutti conoscessero la situazione all’interno del carcere. Forse si temevano livelli di contagio molto elevati e c’era paura di farlo sapere all’esterno.
In Italia a un certo punto è iniziata una diffusione settimanale dei dati sull’andamento della pandemia all’interno delle carceri, ma era solo un aggregato nazionale. Anche se mediamente è andata bene, ci sono stati grossi problemi in alcuni istituti – e questo da un dato aggregato non lo ricavi.
Più in generale, qual è stato l’impatto della pandemia sul diritto alla salute dei detenuti, ad esempio in termini di possibilità di accesso alle cure?
In tutto il mondo la popolazione detenuta è una popolazione ad elevata domanda di salute, perché ha generalmente una molteplicità di problemi sanitari. Una delle questioni più delicate di questi anni di pandemia è proprio il modo in cui è stato gestito tutto quello che non era coronavirus.
Ovunque in Europa è diminuito molto l’accesso alle cure per i detenuti: i medici disponibili erano di meno ed entravano in carcere meno spesso, mentre i detenuti uscivano pochissimo. E poi è accaduto che dei reparti ospedalieri a cui si appoggiavano le carceri siano stati convertiti in reparti Covid, come è accaduto nel nord Italia – e quindi è saltata tutta l’organizzazione preesistente.
Guardando al futuro, quali potrebbero essere le principali eredità del Covid-19 sul sistema penale in Europa? A fronte delle scarcerazioni che si sono verificate durante la prima ondata, si può ipotizzare un maggiore ricorso a pene alternative in futuro?
L’Italia è stata particolarmente reattiva dal punto di vista delle scarcerazioni, mentre in tanti paesi d’Europa non è stata fatta uscire nemmeno una persona. Alcuni paesi hanno puntato piuttosto su una riduzione degli ingressi – una soluzione che forse colpisce meno l’opinione pubblica. Non credo che però questo comporterà un cambio di paradigma nel lungo periodo, anche perché ad esempio in Italia il sistema delle misure alternative è già oggi solido.
Un cambiamento che invece potrebbe avere un impatto duraturo è la crescente digitalizzazione dei processi: udienze a distanza, accesso al fascicolo da remoto, e così via. In tantissimi paesi a causa del Covid-19 è stato fatto un investimento in infrastrutture e formazione, e almeno una parte di questi passi in avanti potrebbe rimanere anche dopo l’emergenza.
La digitalizzazione ha investito anche altri ambiti del sistema penale, compresa la possibilità di accesso a internet per i detenuti. Si possono immaginare dei cambiamenti duraturi da questo punto di vista?
Io mi auguro che la riapertura del carcere significhi anche apertura alle nuove tecnologie, alla connessione da remoto. Noi in Italia eravamo anche abbastanza orgogliosi della quantità di persone che ogni mattina entrava nelle carceri – ma adesso non ci basta più tornare alla situazione pre-pandemia.
Ad esempio, fino a ieri davamo per scontato che se mi arrestano devo smettere di lavorare – ma grazie al telelavoro oggi questo non è più così scontato, perlomeno per alcuni tipi di lavoro. Permettere alle persone di mantenere il proprio rapporto di lavoro sarebbe un cambiamento importante e, abbiamo imparato, anche elementare – non è che servano attrezzature stratosferiche.
Pare ovvio che il carcere sia il luogo del lavoro a distanza, della formazione a distanza, della medicina a distanza. È la sede naturale di queste cose. Sembrava impossibile, ma ora abbiamo l’evidenza empirica che non lo è.
Oggi la normativa si limita a dire che queste cose si possono fare, ma non dice molto altro – quindi consentirebbe ad alcuni direttori di istituti di fare passi da gigante. Gli standard di tutto il sistema carcerario si potrebbero alzare significativamente. Tra l’altro adesso ci sono anche i soldi per farlo: nei Piani di ripresa e resilienza è prevista una fetta significativa per le nuove tecnologie, sono fondi a disposizione anche dei ministeri della giustizia europei.