Anche dove è legale, l’accesso all’aborto non è garantito
In molti paesi europei, a cominciare dall'Italia, la carenza di ginecologi rende impossibile alle donne accedere all’aborto anche quando non sono in vigore leggi che lo vietano.
Anche dove è legale, l’accesso all’aborto non è garantito
In molti paesi europei, a cominciare dall’Italia, la carenza di ginecologi rende impossibile alle donne accedere all’aborto anche quando non sono in vigore leggi che lo vietano.
Il 25 maggio in Irlanda si svolge un referendum per chiedere agli elettori se vogliano o meno abrogare il cosiddetto Ottavo emendamento della Costituzione irlandese che garantisce parità di diritti al nascituro e alla madre e vieta l’aborto nella stragrande maggioranza dei casi, rendendo di fatto l’Irlanda il paese con le più rigide leggi antiaborto del mondo.
Non sempre, tuttavia, occorrono leggi per limitare nella realtà l’accesso all’aborto: in alcuni paesi dove l’interruzione di gravidanza è legale, le donne devono affrontare sempre più problemi per sottoporsi all’aborto, perché non sempre sono disponibili ginecologi che non sono obiettori di coscienza.
Questo è il caso dell’Italia, uno dei pochissimi paesi a tenere un registro dei medici obiettori. In Italia l’aborto è gratuito, sicuro e garantito per legge dal 1978, eppure negli ultimi vent’anni è diminuito il numero delle donne che vi ricorre, e si segnala al contrario un aumento del 12,9 per cento del numero dei medici che per motivi etici si rifiutano di praticare l’interruzione di gravidanza. Così risulta al ministero italiano della Salute, che nel 1997 – primo anno in cui ha iniziato a tenere traccia dei dati – riscontrava che il 62,8 per cento dei medici era obiettore. Tale percentuale nel 2016 è arrivata a 70,9, la più alta mai registrata.
Dai dati regionali si evincono percentuali ancora maggiori. In tutti questi anni, la situazione in peggioramento nel sud Italia e nelle isole ha influenzato negativamente il trend nazionale. Di recente, perfino nell’Italia centrale – malgrado la buona performance delle cosiddette “regioni rosse” (Toscana ed Emilia Romagna) – i dati negativi del Lazio, con un 78,8 per cento di obiettori di coscienza nel 2016, hanno ridotto notevolmente la possibilità per le donne di accedere all’aborto.
L’unica area nella quale la percentuale degli obiettori di coscienza è in calo è il nord Italia, ma nel 2016, ultimo anno per i quali si dispone di dati, perfino Lombardia e Piemonte, due delle regioni più ricche e dotate delle migliori strutture del servizio sanitario, hanno assistito a un sensibile aumento delle percentuali di medici obiettori.
L’interruzione volontaria della gravidanza è praticata soltanto nel 60 per cento degli ospedali italiani. Spesso, per avere accesso a un servizio sanitario garantito per legge, le donne gravide devono spostarsi in altre città e regioni, o addirittura recarsi all’estero. Giulia (nome fittizio usato per evitare che i media la possano perseguitare) ha rischiato di superare il termine ultimo delle dodici settimane per sottoporsi a un aborto legale perché tutti gli ospedali presso i quali aveva cercato di accedere in Veneto, la sua regione, e in altre regioni l’avevano respinta a causa della carenza di personale sanitario non obiettore di coscienza: “In situazioni del genere, o reagisci o vai a sbattere contro il muro e ti distruggono. Già sei fragile e disorientata: non hai il controllo totale della situazione” ha detto.
Giulia ha ottenuto un appuntamento entro i termini massimi previsti dalla legge soltanto dopo aver contattato il suo sindacato, che ha fatto campagna per il suo diritto ad abortire. Il caso è stato molto discusso dai media locali e dal consiglio comunale della sua città, con termini che la raffiguravano come irresponsabile ed egoista: “È stata la conferma del fatto che, quando vuoi mascherare quello che non funziona, il sistema migliore consiste nell’attaccare e umiliare gli altri” ha detto.
La presenza della Chiesa e il prevalere di una mentalità conservatrice nel ministero della Salute su un tema ancora percepito perlopiù come “tabù” potrebbe spiegare questo fenomeno. Ma soltanto in parte. Il problema, secondo la ginecologa Silvana Agatone che esercita a Roma, è la discriminazione istituzionalizzata: “Il medico non obiettore è considerato un criminale, non un dottore dotato di grande senso civico. Tutti si compiacciono del fatto che, poiché non è un obiettore, possono maltrattarlo e nessuno lo aiuta”.
Questo è anche il verdetto del Consiglio d’Europa, l’istituzione che fa rispettare la Convenzione europea dei diritti umani e che per la seconda volta in cinque anni ha riscontrato che “le donne che cercano di sottoporsi ad aborto continuano a imbattersi in notevoli difficoltà per accedere all’interruzione di gravidanza” e che la minoranza del personale sanitario non obiettore di coscienza (medici, ostetriche, anestesisti) “deve affrontare svariati tipi di ripercussioni negative sul lavoro, sia dirette sia indirette, in termini di carico di lavoro, distribuzione delle mansioni, e opportunità di sviluppo della carriera”.
In alcune province, che offrono questi servizi alle donne di città e regioni dove non possono abortire, ogni settimana ciascun medico non obiettore deve farsi carico di un numero record di interruzioni della gravidanza per sopperire alle carenze del servizio. È questo il caso di Taranto, dove ogni medico non obiettore ha eseguito una media di 15,8 aborti alla settimana, in una regione nella quale l’86 dei medici è obiettore di coscienza. Catania ha una media di 12,2 aborti per settimana per ogni medico non obiettore, che fa parte di una minoranza di ginecologi (il 15 per cento sul totale della Sicilia).
“La legge si è come svuotata di contenuti, col passare degli anni, e le sentenze del Consiglio d’Europa è come se non ci fossero. Passano del tutto inascoltate” ha detto Loredana Taddei della Cgil.
Il vero problema, secondo quanto ha detto la ministra italiana della Salute Beatrice Lorenzin nel 2016, non è l’obiezione di coscienza, perché il numero degli aborti nel complesso è in calo. Ed è vero: dal 2010 gli aborti sono diminuiti del 17 per cento, perlopiù a causa della disponibilità dal 2015 della pillola dei “5 giorni dopo”, acquistabile in farmacia.
Tuttavia, secondo i dati, gli “aborti spontanei” sono aumentati, e così pure quelli clandestini. La Cgil crede che in totale siano 50mila l’anno, mentre le stime del governo collocano tale numero tra 12mila e 15mila per le donne italiane e tra tremila e cinquemila per le donne straniere.
Tenuto conto che l’aborto clandestino è punibile con sanzioni molto alte – nel 2016 le multe sono state portate a diecimila euro – molte donne che si trovano in situazione di vulnerabilità hanno paura a rivolgersi agli ospedali dopo essersi sottoposte a un aborto clandestino, anche se ne avrebbero necessità e rischiano di morire. L’aborto è più frequente tra le donne migranti (nel 2014 hanno praticato il 33 per cento degli aborti totali).
“Arrivano al pronto soccorso con febbre alta, aborti incompleti, e alcune sono già in agonia o addirittura morte. Fino a cinque anni fa non ci capitava di assistere a casi del genere. Oggi, poi, si tratta sempre più spesso di donne straniere” dice Agatone.
L’obiezione di coscienza in Europa
L’Italia è l’unico Paese europeo a raccogliere informazioni sull’obiezione di coscienza, ma anche altrove la situazione lascia molto a desiderare. Secondo una recente ricerca , in ventuno Paesi dell’Ue, come pure in Norvegia e in Svizzera, il diritto dei medici di appellarsi all’obiezione di coscienza è garantito per legge. Rifiutarsi di praticare un aborto per motivi morali non è legale in altri stati membri dell’Ue come Svezia, Finlandia, Bulgaria, Repubblica Ceca, oltre che in Islanda.
“Perfino in alcuni paesi europei che hanno legalizzato l’aborto su richiesta, le donne gravide si imbattono in parecchi ostacoli per avere accesso a un’assistenza sicura per sottoporsi all’aborto. Molti stati membri hanno mancato di adottare contesti normativi adeguati e di varare provvedimenti atti a garantire che le donne possano accedere a servizi legali per l’interruzione volontaria della gravidanza nel caso in cui i medici professionisti rifiutino l’assistenza per motivi morali” si legge in un rapporto del 2017 del Consiglio d’Europa .
In Polonia, per esempio, “quando cercano di accedere a servizi legali per l’interruzione volontaria della gravidanza, le donne si imbattono sistematicamente in ripetuti rifiuti di assistenza” continua il rapporto. “Ciò a cui assistiamo in Polonia è un contesto legale che non funziona bene nella pratica. L’effetto raggelante legato al fatto di considerare l’aborto un reato crea un clima nel quale di fatto l’assistenza non è accessibile” ha detto Katrine Thomase, ricercatrice presso l’Ong Centro per i diritti riproduttivi.
Gli emendamenti proposti alla legge per l’aborto – che già oggi è considerata la più restrittiva in Europa, poiché permette alle donne di interrompere la gravidanza soltanto in caso di stupro, per salvare la vita della madre o nel caso in cui il feto evidenzi malformazioni prenatali – punta a rendere illegale l’aborto qualora risulti l’esistenza di malformazioni prenatali.
In Ungheria, una riforma costituzionale del 2011 protegge la vita dal momento del concepimento. Nel 2013 il Paese è stato redarguito dal Consiglio d’Europa perché limita fortemente l’accesso all’aborto: tenuto conto dell’incidenza in aumento dell’obiezione di coscienza e della stigmatizzazione dell’aborto, era stato chiesto al governo ungherese di far sì che, pur autorizzando l’obiezione di coscienza, le donne potessero rivolgersi a medici che praticano l’aborto, e che nessuno ospedale potesse adottare una politica antiabortista.
“In vari paesi europei sentiamo moltiplicarsi le preoccupazioni legate al rifiuto di assistenza e alla pratica dell’aborto e per il mancato impegno da parte degli stati ad assicurare che i servizi per l’aborto siano garantiti in pratica” ha detto Thomase. “Questa è la nostra preoccupazione principale”.