2019: fuga dai Balcani
Un fenomeno ad ondate e dai risvolti preoccupanti: la fuga di cervelli e di lavoratori dalla regione ex jugoslava. Un'analisi dei dati a disposizione
2019: fuga dai Balcani
Un fenomeno ad ondate e dai risvolti preoccupanti: la fuga di cervelli e di lavoratori dalla regione ex jugoslava. Un’analisi dei dati a disposizione
Di recente sulla stampa regionale si sono susseguiti articoli allarmistici sullo spopolamento nell’area post-jugoslava. Spesso ad essere riportate sono statistiche di lungo periodo, mettendo in relazione i flussi attuali con le ondate migratorie degli anni ’90, conseguenza del caos politico, della guerra e della crisi economica che caratterizzarono quel decennio. Questo arco temporale, tuttavia, appare più legato all’abitudine ormai consolidata di spiegare i fenomeni contemporanei nell’area come conseguenza diretta dei conflitti degli anni ‘90, che contribuire alla comprensione delle sue diverse fasi.
Da una parte, la tradizione migratoria nell’area post-jugoslava ha radici di lungo periodo, risalenti almeno alla seconda metà del XIX secolo in particolare nelle regioni ex asburgiche. Inoltre, la Federazione jugoslava ha fatto esperienza di migrazioni di larga portata già dagli anni ‘60, quando, unica tra i paesi socialisti, ha legalizzato la migrazione di forza lavoro.
Dall’altra, non si può parlare di un flusso costante negli ultimi tre decenni, ma piuttosto di diverse ondate. Un primo punto di svolta nella cronologia dei flussi migratori si è avuto nel 2009-2010 quando l’Unione europea ha permesso ai cittadini dei paesi dei Balcani occidentali – ad eccezione del Kosovo – di circolare nello spazio Schengen senza necessitare di visti turistici. Inoltre, in particolare negli ultimi anni, si è aperta una nuova fase, con un incremento dei flussi migratori dai paesi della ex Jugoslavia verso il Nord Europa (e in particolare la Germania), come conseguenza di un insieme di fattori, tra cui l’impatto della crisi economica e l’apertura del mercato tedesco verso i lavoratori dei Balcani occidentali. Le stazioni di molte città dell’area oggi pullulano di autobus diretti verso destinazioni del Nord Europa, calano le iscrizioni alle università e alle scuole, su internet si moltiplicano i gruppi che si offrono come intermediari per il collocamento di forza lavoro all’estero.
Sebbene il caso ex jugoslavo sia particolarmente eclatante, l’emigrazione esterna affligge gran parte dell’Europa orientale e, pur in misura minore, l’Europa mediterranea, ergendosi a simbolo delle disparità crescenti tra le varie aree del continente. Secondo un’inchiesta del quotidiano britannico The Guardian, dal 2007 al 2018 gran parte dei paesi dell’Europa sud orientale hanno perso popolazione. Le prospettive appaiono ulteriormente allarmanti se si guarda al futuro: le proiezioni demografiche operate dal team di Birn al 2050 presentano uno scenario sconfortante, con un picco di un calo demografico al 29% in Bosnia Erzegovina, mentre tutti i paesi dell’area, ad eccezione della Slovenia con un timido aumento, subirebbero un’emorragia di popolazione. Le stime relative all’emigrazione sono però per natura stessa imperfette dal momento che si basano in gran parte sui dati relativi alla residenza, che molte persone non spostano, in particolare in presenza di migrazioni stagionali. Inoltre, in mancanza di ricerche comparate, non è al momento possibile mettere a confronto i dati esistenti per ogni paese, che sono spesso discordanti nelle diverse fonti e devono essere pertanto considerati con cautela.
L’area post-jugoslava di fronte all’emigrazione
Uno dei paesi in cui il tema dell’emigrazione è più sentito è la Serbia, il più popoloso tra gli stati successori della Jugoslavia, con oltre 7 milioni di abitanti. Secondo uno studio dell’Istituto per lo sviluppo e l’innovazione, con il supporto della fondazione Westminster, i circa 49.000 emigranti che lascerebbero il paese ogni anno, in gran parte giovani e istruiti, avrebbero portato al paese una perdita netta di 2 miliardi di euro all’anno. Secondo altre fonti il 70% dei giovani in Serbia vorrebbe emigrare, sia per la possibilità di ottenere maggiori guadagni che spinti da una visione pessimistica del proprio paese d’origine. Il governo ha di recente messo a punto un team per contrastare questa tendenza riunendo personalità provenienti sia dalla politica che dall’accademia, i cui risultati non sembrano essere stati per ora significativi.
Una situazione ancora più grave appare quella della Bosnia Erzegovina, pur in mancanza di statistiche ufficiali, che neppure le autorità sostengono di avere. Secondo le stime dell’Unione per un ritorno sostenibile e per l’integrazione della Bosnia Erzegovina 173.011 persone avrebbero lasciato il paese negli ultimi 5 anni e 73.468 bosniaci avrebbero chiesto lo svincolo dalla cittadinanza. Ma secondo alcuni calcoli il numero di persone che avrebbero lasciato il paese negli ultimi anni raggiungerebbe il mezzo milione. La popolazione del paese, che si attestava a 4.372.000 secondo il censimento del 1991, precedente alla guerra, è scesa a 3,5 milioni secondo il censimento del 2013, ma le cifre ufficiali nasconderebbero una realtà ben peggiore. Secondo altre statistiche quasi la metà dei cittadini nati in Bosnia Erzegovina non vivrebbe più nel paese. Lo spopolamento finisce per avere effetti paradossali: per esempio nel cantone Una-Sana dove migliaia di profughi si trovano parcheggiati ai confini dell’Europa e le autorità non riescono a trovare operai locali disponibili a lavorare nelle fabbriche.
L’emigrazione sembrerebbe non risparmiare neppure il piccolo Montenegro, che contava poco più di 620.000 abitanti al censimento del 2011. In mancanza di stime ufficiali, l’ONG KOD ipotizza una stima di 150.000 individui che avrebbero lasciato il paese dal 1991 al 2012, un trend che affliggerebbe in particolare le zone montane del nord. Mentre in alcuni casi si tratta di una emigrazione di lungo periodo, in altri i flussi sono di carattere stagionale nella vicina Croazia, dove le paghe sono più alte, tanto che nella stagione 2019 si è verificata una mancanza di forza lavoro nel settore turistico montenegrino. Anche l’esodo di forza lavoro dalla Macedonia del Nord, un paese di poco più di due milioni di abitanti, sembra essere diventato sistematico. In tutti i casi la Germania sembra avere assorbito la maggior parte dei flussi, con altri paesi limitrofi (Austria, Svizzera o Italia) in una posizione decisamente più marginale.
Non è difficile immaginare quali siano i fattori che spingono i cittadini dell’area alla partenza: dalla disoccupazione, ai bassi stipendi, alla mancanza di prospettive, alla corruzione dilagante e alla bassa qualità delle istituzioni. L’abolizione dei visti per i paesi della regione nel 2009-2010 aveva dato il via a un’impennata delle richieste di asilo, in particolare in Germania, peraltro rigettate in quanto i paesi dei Balcani occidentali sono considerati “paesi sicuri”; il fenomeno riguardava in particolare fasce specifiche, tra cui la numerosa e marginalizzata comunità rom.
Il caso kosovaro e la mancata liberalizzazione dei visti
Di tutta l’area della ex-Jugoslavia, dal 2010, il Kosovo è l’unico stato che ha ancora bisogno di visti Schengen per viaggiare nell’Ue. Questo, sommato ad elementi specifici e altri generali della regione, contribuisce a sostenere i flussi, legali o illegali, di uscita ‘senza ritorno’, a causa della quasi impossibile mobilità.
Pur essendo, rispetto alla regione, lo stato con l’età media più bassa (29 anni), neppure il Kosovo sfugge quindi al generale declino demografico. La proiezione al 2050 della popolazione residente, rispetto ai poco meno di due milioni di abitanti attuali, secondo lo studio Depopulation HotSpots, avrà un calo dell’11%. Il trend è dovuto a un insieme di fattori, tra i quali quello della continua fuga dal paese è uno dei più importanti.
Secondo il quotidiano britannico The Guardian, il Kosovo ha perso il 15,4% della sua popolazione tra il 2007 e il 2018, il che rappresenterebbe il calo più marcato in tutta Europa. Ma quanto sono affidabili questi dati? Secondo molti ricercatori in Kosovo e all’estero davvero poco. Una cifra reale rispetto al declino della popolazione del Kosovo dal 1991, per non parlare del 2007, è del 4,3 per cento. Nel caso del Kosovo, la ragione dell’errore è che il paese non aveva cifre affidabili prima del suo censimento del 2011. Spesso inoltre, in Kosovo, i numeri sono legati alla propaganda politica: così come l’enorme diaspora kosovara mantiene un rapporto stretto con il paese, e spesso vi mantiene anche la residenza, allo stesso modo lo spopolamento della comunità serba del paese è spesso citata in modo strumentale, da Belgrado, per fini politici.
Se l’accesso a numeri credibili è complesso, resta il problema di fondo: i kosovari, soprattutto i giovani, lasciano appena possono il paese. La meta preferita, di questi tempi, per l’emigrazione legale, è la Croazia. L’ambasciata croata a Pristina ha dichiarato che dal 1 gennaio al 15 aprile 2019 il numero di domande di visto era 2.414. Nello stesso periodo del 2018 c’erano 1.155 domande e nel 2017 c’erano 901 domande. Un trend in aumento costante, confermato dalle lunghe code che ogni giorno si possono vedere davanti alla sede diplomatica di Zagabria nella capitale del Kosovo.
Secondo uno studio pubblicato ad aprile 2019 dall’Istituto Politico Europeo del Kosovo, nel periodo dal 2008 al 2018, un totale di 203.330 cittadini del Kosovo ha lasciato il paese e ha presentato domanda di asilo politico nell’Ue.
Un esodo di massa si è registrato nel biennio 2014-15, quando centinaia di kosovari partivano ogni giorno, principalmente diretti in autobus a Belgrado prima di tentare di attraversare l’Ungheria e poi proseguire verso altri paesi dell’Unione europea. A febbraio 2015, erano almeno 1.400 i kosovari al confine tra la Serbia e l’Ungheria, mentre nei primi mesi del 2015 42mila kosovari hanno presentato domanda di asilo nell’UE.
Nel 2015, in Europa, erano presenti 122.657 persone emigrate – legalmente o illegalmente – dal Kosovo. Nel 2018, questo numero è precipitato a 9175, elemento che testimonia di come, tramontato il periodo della percezione delle ‘frontiere aperte’, le persone che tentano di lasciare il paese sono più focalizzate su pratiche legali di visto temporaneo, di lavoro, di studio o altro.
Secondo l’Agenzia europea di statistica Eurostat, il maggior numero di kosovari che hanno acquisito permessi di soggiorno in altri paesi era in Germania (47%), quindi in Italia (12%), Francia e Austria (circa il 9% ciascuno) e Slovenia (circa 7%). Nel 2016, oltre 21.000 kosovari avevano permessi di soggiorno validi nei paesi dell’UE. Rispetto all’immigrazione illegale, invece, sono stati segnalati 141.330 cittadini kosovari che sono entrati illegalmente nell’Ue. I dati non includono i migranti legali, come quelli i cui soggiorni all’estero sono coperti da permessi di lavoro, afferma il rapporto.
“Un quinto della popolazione del Kosovo ha cercato di fuggire dal Kosovo con mezzi illegali”, ha affermato Taulant Kryeziu, cofondatore e direttore dei programmi presso l’Istituto politico europeo del Kosovo. Tuttavia, le statistiche dell’istituto mostrano che dal 2016 al 2018 la migrazione illegale è notevolmente diminuita, a favore dei tentativi legali, e che la destinazione principale – in generale – per i cittadini del Kosovo è ancora la Germania, con 38mila visti rilasciati per il 2018, di cui 13mila per soggiorni di lunga durata.
Perché i giovani vanno via? I motivi sono tanti, ma il principale resta il lavoro. Il Kosovo, secondo i dati governativi ufficiali, ha un tasso di disoccupazione complessivo del 31,4% e un tasso di disoccupazione giovanile del 57,3%. Al netto del lavoro che non c’è, il profilo salariale medio nel paese è tra i più bassi in Europa.
Sono stati tanti i tentativi della classe dirigente di Pristina, alle prese con una profonda crisi politica, per limitare questo flusso, ma la percezione di uno stato di diritto molto fragile e di un elevato tasso di corruzione (per Trasparency International il Kosovo occupa il 98° posto su 180 nella classifica dei paesi più corrotti al mondo) non aiuta. Neanche i ritorni.
Secondo un rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati dell’UNHCR sulle centinaia di migliaia di sfollati dal Kosovo, solo un totale di 3.236 serbi e 576 rom hanno espresso il loro interesse a tornare volontariamente in Kosovo dopo la guerra del 1999. Nel 2005, il Kosovo ha istituito il ministero delle Comunità e dei Ritorni, che ha cercato di invogliare le persone a rimanere o tornare, ma i risultati – ad oggi – sono quelli che documentano numeri impietosi.
La Westbalkanregelung
Sulla mappa della penisola balcanica si sono incontrati dunque numerosi e differenti flussi in uscita e anche in entrata, dal 2015, con l’aumento degli arrivi di profughi sulla cosiddetta “rotta balcanica”. Il 2015 è stato un anno cruciale anche perché ha visto la Germania facilitare, con l’approvazione di un regolamento apposito, la Westbalkanregelung, l’ottenimento dei permessi di lavoro per cittadini di tutti i paesi dei Balcani Occidentali in presenza di un contratto di lavoro e senza particolari requisiti di riconoscimenti delle qualifiche o conoscenza del tedesco.
La Westbalkanregelung, che include Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Albania, ha contribuito ad aprire dei corridoi legali in cui incanalare flussi che precedentemente ricorrevano alla procedura d’asilo. Oggi il 25% circa degli stranieri attivi sul mercato del lavoro tedesco proverrebbe proprio dai Balcani occidentali e si collocherebbe soprattutto nel settore dell’edilizia e della ristorazione. La Westbalkanregelung sarà in vigore fino al 2020 ed ancora non è chiaro quale sarà la sua sorte dopo quella data. “In passato arrivavano richiedenti asilo, ora arrivano lavoratori edili”, titolava trionfalmente il quotidiano tedesco Die Welt. Non è chiaro però cosa questi lavoratori potrebbero diventare se i contratti non venissero rinnovati, dal momento che solo il 5% avrebbe un permesso di soggiorno permanente.
Sembra in ogni caso ipotizzabile che la Germania rimarrà ancora a lungo una meta attraente. E, come accaduto negli anni ’60, quando gli jugoslavi riempivano i treni diretti verso la Germania occidentale, il tema dell’emigrazione è entrato in profondità nella cultura di massa locale.
I can no longer wait, take me to United States. Take me to Golden Gate, I will assimilate canta con ironia il gruppo bosniaco Dubioza Kolektiv. Il tema del brain drain fa da sfondo anche alla serie serba Jutro će promeniti sve [Il mattino cambierà tutto] che racconta i dilemmi della generazione dei trentenni che più di tutti ne è protagonista. E a toccare il tema è anche, come ci si potrebbe aspettare, la documentaristica, come nel caso di Davor Obrdalj che nel suo lavoro Nestajanje [La scomparsa] ha descritto la vicenda di tre giovani con una formazione specialistica, in fuga da una Sarajevo dove tutto è condizionato da affiliazioni partitiche. Il tema pare essere sulla bocca di tutti, ad eccezione delle classi politiche locali, che per il momento preferiscono soprassedere.